Partigiano Giovanni Giolitti

Testimonianza sul partigiano Giolitti Giovanni nato il 6 maggio 1913 resa dal figlio Romeo alla signora Anna Bonetto (dell’A.N.P.I.) che  a sua volta ha incontrato il 19 marzo 2024 gli studenti della terza A della scuola secondaria 1° grado di Verzuolo.

Giolitti Giovanni è nato il 6 maggio 1913; entra, a più di trent’anni, nella Brigata Morbiducci presente in Val Varaita nel gennaio del 1945 e vi rimane fino a giugno dello stesso anno come partigiano benemerito. Nel 1943 era stato richiamato alle armi sul confine francese in servizio sedentario, nonostante  fosse  stato dichiarato inabile al combattimento per problemi fisici.

  • Quando avete sentito raccontare per la prima volta dai vostri familiari dell’esperienza partigiana, cosa avete provato?
Mio padre lavorava alla Cartiera Burgo e a casa era poco presente. Non raccontava in modo diretto dell’esperienza partigiana, se non quando ne parlava con gli amici e io lo ascoltavo. 
  • Secondo voi e in base a quello che vi è stato raccontato, che cosa ha spinto i giovani di allora a scegliere di diventare partigiani?
I giovani di allora decidevano di diventare partigiani per necessità. Il 1943 rappresentò un primo spartiacque: con la firma dell'armistizio e l'invasione dei tedeschi molti partigiani fecero la loro scelta. 
  • A cosa fu dovuta la loro spinta antifascista?
All’inizio i giovani scappavano in montagna per necessità, solo in seguito ebbero una coscienza e una formazione politica di antifascisti.
  • I loro genitori seppero subito della loro scelta? La approvavano?
I loro genitori e famigliari non approvavano questa scelta che metteva in pericolo i loro figli, ma facevano di tutto per aiutarli.
  • Che rapporto avevano i partigiani con le persone che vivevano nei paesi qui intorno? Ci sono degli aneddoti che potete raccontarci?
La popolazione era divisa tra chi era indifferente e chi aiutava i partigiani, per esempio portando loro cibo e vettovaglie. La sig.ra Anna racconta la testimonianza del signor Silvestro. Ex soldato, aveva aiutato i partigiani che si trovavano a S. Cristina portando loro formaggi e beni di prima necessità che recuperava a suo rischio e pericolo a Vottignasco dove aveva dei parenti e conoscenti; incontrava i partigiani nei dintorni di via Castello a Verzuolo. 
  • Qual era il nome di battaglia scelto dai vostri parenti? Per quale motivo lo avevano scelto?
Il nome di battaglia era Oscar, ma non si sa il motivo di questa scelta. In ricordo del nonno, anche il nipote porta questo nome.
  • Appena finita la guerra, che cosa desideravano fare?
Appena finita la guerra, i partigiani desideravano vivere in pace con le loro famiglie e migliorare la loro situazione economica e lavorativa. Giovanni racconta di aver vissuto nella cantina di una casa di via Castello a Verzuolo sistemata parzialmente, in quella casa abitavano 5-6 famiglie.
Dopo la guerra, Giovanni continuò a lavorare presso la cartiera Burgo come operaio.
  • Amavano raccontarsi o hanno faticato perché, come anche i deportati, non si sono sentiti compresi?
Giovanni non ha mai raccontato direttamente la sua storia al figlio, che ne è venuto a conoscenza ascoltando i discorsi che il padre faceva con i suoi amici, mentre lui giocava.
  • Rispetto all’idea di Resistenza che ci si può fare sui banchi di scuola, com’era quella vera, che coinvolse i vostri familiari?
Resistenza voleva dire riuscire a organizzarsi per combattere contro i tedeschi e i fascisti per evitare danni all’Italia e per uno stato democratico. Dalla Resistenza nacque la nostra Costituzione.
  • Raccontava spontaneamente o doveva essere sollecitato?
Ne parlava spontaneamente solo con gli amici.
  • C’è un episodio, tra quelli raccontati, che le rimase più impresso?
Giovanni faceva parte della centottantunesima Brigata Morbiducci che operava in Val Varaita e, come molti operai della Burgo, sosteneva la Resistenza. La cartiera era la maggiore risorsa economica della zona e i tedeschi volevano controllarla. Avevano costruito un campo di atterraggio chiamato aeroporto della Grangia tra Lagnasco e Verzuolo. Per la mimetizzazione del campo, fecero un accordo con la Burgo per mandare operai a piantare dell'erica intorno alla pista di atterraggio. Tra loro c'era anche Giovanni. I tedeschi controllavano il lavoro in modo autoritario. Un giorno uno degli operai aveva osato borbottare e insultare in piemontese una guardia, definendolo "falabrac". A quel punto la guardia tornò indietro e chiese il significato della parola. Giovanni disse che voleva dire "uomo grande e grosso" e l'operaio se la cavò. 
Il ricordo che ho di mio padre partigiano risale al 1945, quando entrò nella nostra abitazione con una pistola in mano e la fece vedere a mia madre che si preoccupò molto, perché non voleva tenere quell’arma in casa. Io ero un bambino e ne fui molto colpito.
Nel 1945 i tedeschi, rendendosi conto che stavano perdendo la guerra, avevano ricevuto l’ordine di requisire dalla fabbriche italiane e quindi anche dalla Burgo i macchinari, i materiali e gli strumenti che permettevano all’azienda di funzionare e di trasferirli in Germania. La macchina quarta era la più nuova installata in cartiera, allora per evitare che venisse trasferita in Germania, un gruppo di operai l’avevano smontata e tolto gli ingranaggi fondamentali per il suo funzionamento che furono sotterrati sotto le cataste del legname nel parco legno nella zona verso Papò.
I tedeschi spostavano le merci usando la ferrovia, il gruppo di operai della fabbrica che appoggiavano o facevano parte della Resistenza (fra cui mio padre) avevano ricevuto l’ordine di far saltare il ponte della ferrovia di Verzuolo (ponte di ferro). Uno di loro era Giuspin Berardo che abitava vicino alla vecchia parrocchiale (via Castello e via S.Grato). Minarono i binari, ma lo scoppio ne distrusse solo una parte; dall’interno della Burgo vennero spinti i vagoni ferroviari sulla linea sperando che questi non riuscendo a passare bloccassero tutto il traffico ferroviario.
Invece i vagoni riuscirono a passare su quello che restava delle traversine e binari e prendendo velocità passarono Saluzzo e andarono a schiantarsi a Savigliano.
I tedeschi pensarono allora di utilizzare degli autocarri per portar via i materiali dalla Burgo passando sul ponte di via del Teatro. Un gruppo di operai (tra cui mio padre) ricevette l’ordine di minare quel ponte (di via del Teatro). Di notte con degli scalpelli prepararono gli alloggiamenti per le cariche di dinamite.
Tutto era pronto per bloccare il ponte quando il gruppo ricevette l’ordine dal C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) di fermare tutto, la guerra era finita.

Un fatto che raccontava spesso di quel periodo è che i tedeschi e i fascisti vennero in Cartiera per prelevare l’operaio Livio Manzardo che era partigiano, ma lui con un’agilità sorprendente riuscì a fuggire buttandosi nel bedale del Corso, dove adesso c’è vicolo della Cartiera.
  • Ricorda i sentimenti che esprimeva mentre raccontava?
Giovanni raccontava le difficoltà vissute in un modo che rispecchiava il suo carattere, di solito allegro. Riusciva a sorridere delle sue disgrazie.
  • Com’erano i rapporti con le donne partigiane o staffette?
Le staffette portavano messaggi e ordini da una valle all’altra dove si trovavano i partigiani. Le donne si muovevano più liberamente perché meno sospette.
  • Com’erano i rapporti con la Chiesa presente sul territorio?
Molti sacerdoti aiutarono i partigiani nascondendoli nelle chiese o portando loro i beni necessari. Alcuni di loro si offrivano come prigionieri al posto dei padri di famiglia. C'era un reciproco aiuto.
  • Avete materiali fotografici o documenti che testimonino ancora oggi l’attività partigiana del vostro familiare?
Sul sito dell'Anpi c'è la scheda del partigiano, con l’attestato e la registrazione.