Nato a Verzuolo (Cn) il 20 maggio 1921 resa dal figlio Dario il 30 marzo 2023 per gli studenti delle terze scuola secondaria 1° grado.
Quando avete sentito raccontare per la prima volta dai vostri famigliari dell’esperienza partigiana, cosa avete provato?
Ho iniziato poco per volta a conoscere quella parte di mio padre, lui aveva mantenuto moltissimi contatti con i suoi compagni e aveva con loro iniziato l’attività all’interno dell’A.N.P.I., l’associazione che li appresentava. Ho così avuto l’occasione di conoscere piano piano quella che era stata per lui quella esperienza. I suoi racconti, anche se pochi, mi inorgoglivano, i suoi amici partigiani, quando ero piccolino, erano nel mio immaginario cavalieri senza macchia e senza paura.
Secondo voi e in base a quello che vi è stato raccontato, che cosa ha spinto i giovani di allora a scegliere di diventare partigiani?
Agli inizi la necessità è stata quella di non essere catturati dai tedeschi e fascisti. Mio zio, il fratello di qualche anno più grande di lui, viene, subito dopo l’8 settembre, catturato e deportato in Germania. Mio padre con alcuni amici della parrocchia trova subito rifugio sulle colline di Verzuolo, riuscendo così ad evitare l’arresto. A seguire, la necessità di apportare un cambiamento alle angherie di fascisti e tedeschi, le distruzioni, le morti, la fame svilupperanno in lui e in molti altri giovani quei sentimenti antifascisti che gli permisero di resistere venti mesi in montagna.
A cosa fu dovuta la loro spinta antifascista?
Mio padre raccontava che quando nel 1941 fu chiamato militare, era orgoglioso di indossare la divisa, quell’euforia durò poco: si sentivano i bollettini di guerra provenire dai vari fronti, Grecia, Albania, Jugoslavia e anche dall’Africa. Si veniva man mano a sapere anche delle ingenti perdite umane… Noi giovani, diceva, non conoscevamo nulla di politica, il fascismo ci aveva tenuti all’oscuro inculcandoci solo il pensiero mussoliniano. Con il militare incominciai a prendere coscienza dell’idea di libertà, cominciavamo a renderci conto che le guerre generavano solo fame e dolore, arricchendo qualcuno e impoverendo molti, allora, diceva, iniziarono a diffondersi le idee antifasciste. Io penso che fu proprio il vedere le disparità tra la gente, la disperazione di chi perdeva i propri cari per una guerra non voluta che spinsero mio papà a fare la scelta antifascista. Ricordo il suo racconto dell’8 settembre, quando, recuperato il poco materiale dal forte di Vinadio dove in quel momento era acquartierato, con pochi compagni, con qualche fucile e poche munizioni si definì per la prima volta Partigiano.
I loro genitori seppero subito della loro scelta? La approvavano?
I miei nonni sapevano che mio papà era salito in montagna e tutto sommato lo approvavano, questa scelta però fu causa dell’arresto di mio nonno da parte dei tedeschi. Una sorta di “spia” lo denunciò in quanto padre di partigiano, il suo arresto doveva servire ad uno scambio, la scarcerazione di mio nonno vincolata al consegnarsi di mio padre nelle mani dei tedeschi. Il fatto durò 8 giorni, mio padre si trasferì nel distaccamento più vicino a Verzuolo per seguire meglio la situazione mentre il comando lo consiglia di non presentarsi dato che finirebbe fucilato. Intervengono a favore di mio nonno il parroco Don Demaria, il Podestà e persino il segretario del fascio, tutti perorano la causa di mio nonno che viene così liberato. Il comando tedesco che alloggiava proprio nella casa dove mio nonno era custode, per paura di essere attaccato dai partigiani lascia quella abitazione.
Che rapporti avevano i partigiani con le persone che vivevano nei paesi qui intorno? Ci sono degli aneddoti che potete raccontarci?
I rapporti con la popolazione erano sicuramente buoni anche se pericolosi per entrambi, i giovani che erano saliti in montagna non sarebbero mai riusciti a sopravvivere senza l’aiuto di chi abitava in quei luoghi. Mio papà ricordava sovente un posto in Valle Varaita, la borgata Mattone e il montanaro che con la propria famiglia sempre li aiutava. Si chiamava Custans, “Custans di Matun”. Ricordava anche, scherzando, i periodi di calma, dove si scendeva in paese per cercare un po di svago, magari riuscendo ad incontrare delle ragazze. Per questo i ragazzi del luogo non vedevano di buon occhio questa intrusione e senza mandarli via, verso le 11 intonavano una canzone che diceva: “Sono le 11, sono le 11 già suonate e si avvicina la mezzanotte, andiamo a letto a riposar…” Così, raccontava mio padre, ci ritiravamo e loro potevano rimanere con le loro morose.
Qual era il nome di battaglia scelto dai vostri parenti? Per quale motivo lo avevano scelto?
Mio padre come nome di battaglia aveva scelto King che significa appunto Re, ma all’epoca non ne conosceva il significato. Era in realtà il nome del cane dell’ufficale a cui lui fece da attendente da militare. Quindi una volta salito su in montagna, siccome non doveva tenere il suo vero nome, scelse appunto King.
Appena finita la guerra, che cosa desideravano fare?
Sicuramente per me è un po’ difficile essere a conoscenza di quello che volesse fare dopo la guerra, però secondo me la prima cosa che avrebbe voluto realizzare era quella di riposarsi e dimenticare per un attimo tutto quello che aveva passato in quei venti mesi in montagna che furono molto pesanti. Dopodiché ha dovuto cercare un lavoro e ricominciare la sua vita.
Amavano raccontarsi o hanno faticato perché, come anche i deportati, non si sono sentiti compresi?
Mio papà era una persona umile e schiva, ha sempre raccontato poco della sua personale esperienza, si è però sempre prodigato nel trasmettere e ricordare quello che la resistenza era stata, a mantenere viva la memoria. Ha dedicato molto del suo tempo a far sì che chi, meno fortunato di lui era morto su quelle montagne, non venisse dimenticato. Lo riteneva un suo dovere morale.
Rispetto all’idea di Resistenza che ci si può fare sui banchi di scuola, com’era quella vera, che coinvolse i vostri famigliari?
I libri a volte faticano a descrivere il periodo resistenziale, una lotta di popolo, il più disparato, dove donne e uomini, giovanissimi e anziani, insieme, senza neanche avere ben chiaro quello che era il fascismo e l’antifascismo, si sono stretti gli uni agli altri, consapevoli che la parte giusta era quella a fianco di chi si batteva contro i tedeschi e fascisti. I miei nonni la politica non la conoscevano e lo stesso agli inizi mio padre, sapevano che quel figlio in montagna e con lui altri figli di altre madri dovevano essere aiutati perché loro erano la speranza. La Resistenza che mi è stata raccontata parla di sacrifici, paura, fame, freddo e pidocchi. Ha portato la Pace, ne è valsa la pena, sta a noi mantenerla.
Raccontava spontaneamente o doveva essere sollecitato?
Non amava raccontarsi, ha però sempre dato, finché la salute glielo ha permesso, la sua disponibilità ad incontrare gli studenti e ad accompagnarli sui luoghi della Resistenza.
C’è un episodio, tra quelli raccontati, che le rimase più impresso?
Di episodi ne ricordo diversi, ma due in particolar modo: il primo riguarda il rastrellamento del 21 agosto ‘44 da parte dei tedeschi. Ricordava che si trovava nella zona del Ponte di Valcurta, prima di Melle (valle Varaita) in prima linea. “Marino mi manda di pattuglia con 3 compagni, un attimo e ci troviamo i tedeschi che già salivano, l’ordine, diceva, era di non sparare ma siamo stati costretti a farlo per poter ripiegare. Saetta, uno dei miei compagni, il più avanzato, è morto lì”. In quel momento del racconto, ogni volta, la sua voce si abbassava. Il secondo riguarda l’eccidio di Valmala, lui con Marino e Trapani arrivarono al Santuario quando i fascisti avevano già concluso l’eccidio dei partigiani che lì erano accampati e per puro caso l’avevano scampata. A loro il triste compito di recuperare i compagni caduti. Il momento del suo racconto che più mi è rimasto impresso è quando King racconta del recupero di Ivan il russo: “Aveva combattuto fino all’ultimo colpo del suo sten, ferito si era fermato per difendere la fuga dei suoi compagni, povero cristo, ucciso come un cane” Queste parole le ricorderò per sempre.
Ricorda i sentimenti che esprimeva mentre raccontava?
Sempre una profonda tristezza per i compagni che aveva perso in quei 20 mesi e la certezza di essere stato dalla parte giusta.
Com’erano i rapporti con le donne partigiane o staffette?
Di rispetto e parità.
Com’erano i rapporti con la Chiesa presente sul territorio?
Buoni, i parroci di montagna, salvo rari casi, hanno sempre collaborato e aiutato.
Avete materiali fotografici o documenti che testimoniano ancora oggi l’attività partigiana del vostro famigliare?
Sì, abbastanza. Disponibili per chi ne avesse necessità.
Testimonianza sul partigiano Vassallo Giacomo nato a Saluzzo (CN) il 21-09-1924 resa dalla figlia Antonella…
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