Incontro dibattito sala Arroyito Verzuolo: iniziative per l’80° della liberazione

Ruolo del basso clero nella lotta di Liberazione insieme all’on. Sergio Soave di Giampaolo Testa.

La definizione di “basso clero”, oggi desueta, rimanda agli Stati sociali pre-rivoluzione francese, tuttavia ritengo abbia un suo perché in questo contesto.
Parliamo di preti “invisibili”, quei vicecurati che affiancavano il parroco
seguendo la gioventù e che quasi vengono ignorati dagli archivi parrocchiali ma che hanno segnato la giovinezza nostra e ancor più quella dei nostri padri.
Sono stati quelli che, in questi 80 anni, hanno saputo sentire più di altri – per usare un’espressione di Papa Francesco – “l’odore delle pecore” perché hanno vissuto a più diretto contatto con le loro comunità, gioendo e soffrendo con loro.
Sono loro che, più di altre figure, hanno saputo “compatire” (nel senso etimologico latino del PATIRE CUM) la popolazione.
Di loro – dicevo – c’è scarsa documentazione negli archivi, sia parrocchiali che diocesano, per cui non è stato facile ripercorrere le loro tracce se non sulla scorta delle ultime preziose testimonianze di una generazione che sta volgendo al termine.
Sono stati accanto alle comunità loro affidate in quei travagliati anni della guerra, divenuti ancora più turbolenti nel periodo dal settembre ‘43 alla primavera della liberazione dell’aprile ‘45.
Indirizzo la mia attenzione, in questo intervento frutto di letture fatte incrociando dati (pochi), testimonianze orali, su alcune figure di preti verzuolesi che, ahimè, sono stati trascurati anche dalla pubblicistica che ha raccontato le vicende della lotta di Liberazione e la Resistenza.
Senza enfasi e senza nulla voler togliere ad altre espressioni culturali e politiche, con il solo ed unico intento di ribadire il concetto che la Liberazione.

  • senza quel concorso plurale che ebbe – non sarebbe stata tale e dunque
    non possibile.

DON MICHELE DEMARIA vicecurato di Santa Maria di Verzuolo

Originario di Barge, omonimo ma non parente di don Costanzo Demaria, il parroco di San Chiaffredo di Busca trucidato dai repubblichini il 14 settembre 1944.
Quando viene inviato vicecurato alla parrocchia di Santa Maria di Verzuolo nel 1941 non ha ancora 25 anni.
Don Michele è carico di quell’ entusiasmo che gli deriva sia dalla missione che ha intrapreso sia dalla sua giovane età.
I ragazzi che segue sono più grandi di lui di appena una manciata d’anni per cui si può dire siano quasi suoi coetanei.
In parrocchia c’è l’Azione Cattolica, allora strutturata e ben organizzata.
Accanto alla formazione cristiana c’è quella – non meno importante – civile e politica.
Il fascismo, oltre ad avere devastato e chiuso le sedi dell’Azione Cattolica ha cancellato le libertà individuali.
I giovani, alcuni dei quali sono già militari, discutono, si interrogano se sia possibile venir meno al giuramento fatto alla Patria e al Re.
Li aiuta in questa loro riflessione un altro prete verzuolese, don Adolfo Mattiuzzo, che insegna filosofia al seminario maggiore di San Nicola.
Mattiuzzo spiega loro che “nessun giuramento ha più valore a fronte di uno Stato che si è trasformato in un’associazione a delinquere”
Nel settembre 1943 gli eventi precipitano in maniera drammatica.
L’8 settembre c’è l’armistizio e con esso lo sbandamento della IV Armata.
Alcuni giovani militari verzuolesi tornano a casa, ma il 23 settembre Mussolini dà vita a Salò alla Repubblica Sociale e il Paese è nel caos.

Don Demaria non vede altra soluzione per i suoi giovani che quella di una netta scelta di campo e li esorta a salire in montagna.
Il primo nucleo che sale a Ciastralet, borgata situata poco sotto il santuario di Valmala, è composto da 8 persone di diversa estrazione sociale e di vario orientamento: Angelo Boero, Lelio Peirano, Rino Tescari, i fratelli Beppe e Bruno Ponzo, i fratelli Alessandro e Giancarlo Quagliotti e mio padre, Mario
Testa, che era militare alla GAF (Guardia Frontiera) a San Dalmazzo Tenda.
Don Demaria li segue, garantisce loro, insieme al papà di Angelo Boero e alla famiglia Quagliotti (rispetto alle altre era quella socialmente meglio agiata), il vettovagliamento e anche armi.
Non solo. La canonica di Santa Maria diventa il luogo dove, di tanto in tanto, i responsabili delle varie formazioni partigiane si ritrovano per fare il punto della situazione.
L’anziano parroco, don Giuseppe Botta, è morto nel 1944 e in attesa della nomina del nuovo parroco, don Giovanni Fino, il vicecurato è facente funzioni e ha campo libero.
Don Michele, secondo le testimonianze di Angelo Boero e Lelio Peirano – riportate in una tesi di laurea – è stato insignito di una medaglia dall’Anpi, probabilmente negli anni ’50 ma di questo fatto si sono perse le tracce e la mia ricerca non è approdata a risultati concreti.
Il vicecurato lascerà la parrocchia di Santa Maria nel 1946 per andare a svolgere le mansioni di cappellano militare nella Polizia di Stato.
Muore nel 1989 nella casa di riposo del clero a Pancalieri.

DON DOMENICO MARTINO priore di San Bernardo di Verzuolo

Don Martino è più vecchio di 35 anni rispetto a Don Demaria. È un prete semplice che fa il priore in una comunità povera, che campa grazie ad un’economia di sussistenza, allora ancora popolosa sulla collina verzuolese.
Amatissimo dalla sua gente e da tutta Verzuolo, come dimostra la foltissima partecipazione ai suoi funerali nel 1949.

Voglio ricordare anche lui non tanto perché abbia avuto a che fare direttamente con la Resistenza, quanto per un paio di fatti che sono comunque collegati a quei convulsi anni.
Uno dei due – reso noto di recente da un articolo di Riccardo Baldi – riguarda il fatto che con Don Martino ha ospitato nella sua canonica, per un tempo imprecisato, una famiglia di ebrei che in questo modo è riuscita a salvarsi scampando alla deportazione.
La conferma è stata data dal professor Giovanni Ferretti, prete teologo e filosofo, accademico, docente emerito di Filosofia Teoretica, già rettore dell’Università di Macerata, oggi ultranovantenne, figlio di Sante Ferretti, maresciallo dei Carabinieri a Verzuolo dal 1939 al 1945.
Il maresciallo sapeva ma chiuse un occhio. Anche quella di Sante Ferretti è figura che meriterebbe di essere meglio e più compiutamente ricordata.
Don Martino rifocillò in più di un’occasione – specie in inverno – i partigiani che si trovavano a passare da quelle parti.
Un aneddoto a questo proposito: in una testimonianza raccolta da don Giovanni Rovera nel libro “Memorie della Seconda Guerra Mondiale”, Lelio Peirano ricorderà. “Una ‘panada’ così buona come quella che ci aveva offerto Minchina (perpetua di don Martino) in quell’inverno quando infreddoliti a
fradici di neve bussammo alla porta della canonica di San Bernardo non l’ho mai mangiata”.
I repubblichini, che evidentemente già lo tenevano d’occhio, saputo a ritroso di questi fatti, in un’incursione a San Bernardo lo pestarono a sangue.
Quell’aggressione lasciò sul corpo di don Martino, già anziano e malfermo di salute, conseguenze da cui non si riprese.
Morì nel 1949 e – come annota Baldi – ai suoi funerali partecipò pressoché tutta Verzuolo, le saracinesche dei negozi si abbassarono in segno di lutto a dimostrazione di quanto fosse amato l’umile priore di San Bernardo.

Voglio ancora ricordare, anche se in maniera poco più che didascalica, alcune figure di sacerdoti delle vicine valli che ebbero un ruolo non marginale in quei drammatici anni.

VALLE VARAITA

Don Antonio Salomone, storico parroco di Sampeyre, arriva nella parrocchia del capoluogo della valle Varaita nel 1941 e interviene più volte per scongiurare sommarie esecuzioni, per evitare che alcuni suoi giovani parrocchiani, ritenuti disertori dai repubblichini, venissero arrestati e inviati nei campi di concentramento; dà ospitalità ad ebrei e fa avere pacchi viveri ai partigiani. Nelle sue memorie di guerra scriverà: “Era più facile trattare con i militari tedeschi che con i repubblichini”.

Don Francesco Demarchi, anziano parroco di Lemma, malmenato e pestato a sangue per aver dato sepoltura ai 9 partigiani caduti al santuario di Valmala nel marzo del ’45. Venne portato a Busca, tenuto rinchiuso per tre giorni, durante i quali fu fatto oggetto di torture, insulti e vilipendio perché i repubblichini ritenevano avesse avuto contatti sistematici con le bande partigiane.

VALLE PO

Don Michele Lerda, classe 1900, di Castelletto di Busca, è l’unico prete secolare della diocesi di Saluzzo, ad aver ottenuto il riconoscimento ufficiale dal Ministero dell’Assistenza post bellica di partigiano-cappellano nella XV Brigata.
È il prete che il vescovo, Luigi Egidio Lanzo, chiama sistematicamente per scongiurare esecuzioni o rappresaglie, trattare liberazione di prigionieri o scambio di ostaggi. Più volte parte da Revello alla volta di Torino in bici per trattare la loro liberazione. Assiste in più occasioni le vittime prima della loro esecuzione.
Nel Natale del 1943 – come ricorda lui stesso – era salito sui monti sopra Paesana per celebrare le messa ai partigiani di Pompeo Colajanni “Barbato”.
Ricordi dettagliati che ha raccolto in un libro “Un prete nella Resistenza piemontese”
Carattere energico, deciso, senza ombra di dubbio assolutamente e profondamente antifascista ma anche nettamente anticomunista come risulta dai suoi scritti fumantini sui bollettini parrocchiali dell’immediato dopo guerra, in occasione delle prime elezioni amministrative del 1946.

Don Biagio Giraudo, giovane prete assistente dell’Azione Cattolica Giovani “Excelsior”, avrà un ruolo importante nell’immediato dopoguerra anche rispetto alla formazione della futura classe dirigente politica locale.

Don Pierluigi Occelli, “Don Pietro” prete buschese, religioso paolino, amico di don Giacomo Alberione, direttore di Famiglia Cristiana per un paio d’anni, al quale – come per don Lerda – è stato anche riconosciuto il ruolo di “prete partigiano” perché a Roma, dove era parroco in quegli anni, partecipò
attivamente alla difesa della capitale – battaglia della “Montagnola” – ed ebbe un ruolo importante nell’organizzazione dei primi nuclei di partigiani cattolici.
Morto ad Albano Laziale dov’era parroco nel 1994.
“Don Pietro” ha ricevuto la Medaglia d’argento alla memoria attribuitagli dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi proprio in virtù del ruolo che ebbe nella capitale sia in quanto partigiano sia per il suo prodigarsi a favore della popolazione in quei drammatici anni di guerra.