Partigiano Carlo Razè

Nato a Casalino (No) il 28 febbraio 1920.Testimonianza resa dalla figlia Luisa agli studenti delle terze scuola secondaria 1° grado di Verzuolo.

  • Quando avete sentito raccontare per la prima volta dai vostri famigliari dell’esperienza partigiana, cosa avete provato?

In famiglia non si parlava dell’esperienza partigiana, sono venuta a conoscenza molto tardi del fatto che mio padre aveva fatto parte della 15^ Brigata Garibaldi, come Capo Squadra (dal 15.01.44 al 12.01.44, in seguito come Commissario di Distaccamento (dal 2.06.44 all’1.02.45) e nella 181^ Brigata Garibaldi in qualità di Vicecomandante (dall’1.02.45 al 07.06.45).
Ricoprì la carica di Comandante di Distaccamento (il distaccamento Bottazzi) all’epoca dell’eccidio di Valmala. Nonostante i suoi silenzi, ero solita accompagnarlo fin da piccola ad inaugurazioni dei monumenti tra i più importanti per il ricordo della storia dei 20 mesi in Val Varaita: così nasce la mia conoscenza di quel mondo e di quel periodo. Valmala, Melle, Valcurta, tutti luoghi dove l’azione partigiana si scontra con gli invasori, riportando gravi perdite e grande smarrimento tra i compagni sopravvissuti. Diceva e scriveva mio padre: “Mai però lo sconforto impedì di ricostruire le formazioni garibaldine” che continuarono la lotta fino alla Liberazione. Alle feste d’Aprile, si radunavano i partigiani sopravvissuti, li ricordo. Mai mancavano le discussioni appassionate piene di rimpianto per i compagni perduti, sovente si animavano per un pensiero postumo, nell’ipotizzare mosse e strategie di combattimento diverse… allora percepivo qualcosa di grave e di grande che ancora agitava quegli uomini e mio padre.

  • A cosa fu dovuta la loro spinta antifascista?

Durante il fascismo, molti non smisero di immaginare un’Italia diversa, libera dall’ oppressione, aperta e illuminata, che potesse tornare ad arricchire le menti e la società: dopo l’8 settembre, con la catastrofe compiuta, maggiore è lo slancio verso nuovi valori, anche se la strada è ancora in salita. Molti giovani e soldati allo sbando sceglieranno la via della montagna per contrastare gli ultimi sussulti del regime, che continua a cercare di reinstaurarsi.
Anche la scuola di allora, dopo le leggi razziali e a causa dei metodi conservatori, è la culla di una protesta. Abbiamo vissuto l’esperienza di contestazioni nel ’68: erano le nostre proteste, lontane parenti della ricerca del rinnovamento.

  • I loro genitori seppero subito della loro scelta? La approvavano?

All’epoca forse non tutti i giovani trovarono comprensione per la scelta di schierarsi tra i partigiani.
L’apprensione per un figlio che si sente di ribellarsi e darsi alla macchia, può generare ansia. Per Carletto andò diversamente: nato a Novara, figlio di un bracciante agricolo e di una mondina, famiglia umile che compì sforzi per elevarsi e procurare ai figli sicurezza, ma anche consapevolezza. L’istruzione al primo posto. Solo il nonno (socialista) sapeva scrivere, aveva imparato in campo di prigionia durante la Grande Guerra (a Martrenk). Questa famiglia crebbe i figli in ambiente aperto e liberale, nonostante i limiti del fascio e della sua scuola. Quando Carletto salì in montagna, fu una scelta condivisa.

  • Che rapporto avevano i partigiani con le persone che vivevano nei paesi intorno? Ci sono degli aneddoti che può raccontarci?

Il rapporto con gli abitanti della vallata era costruttivo, dal momento che i montanari e le loro donne si rendevano disponibili all’aiuto negli approvvigionamenti, offrivano un riparo ed un nascondiglio nei momenti critici in cui i fascisti rastrellavano la montagna alla ricerca dei partigiani, inoltre le donne operavano come staffette ossia portavano messaggi ed importanti informazioni ai distaccamenti dislocati tra le borgate. Ricorda Carletto come per questa disponibilità e specialmente per il “silenzio”, molti montanari ebbero la casa bruciata, gli animali abbattuti e a volte persero la vita, per proteggere dalla ferocia del nemico quei ragazzi che volevano ridare libertà alla nazione. La paura che serpeggiava tra i valligiani era una realtà, ma non si tirarono mai indietro, nell’affrontare la sorte comune di oppressi, condividendo il poco cibo e la fratellanza.
Racconta Carletto che il giorno 18 novembre ’44 una corvée composta da Nerone, Pascà e Margherita, che trasportava abiti e cibo donato, venne intercettata da 6 fascisti della Monterosa, travestiti da GL che li arrestarono, ed insieme a loro anche i partigiani di pattuglia … ingannati dal falso vestiario. Un nemico feroce e implacabile. Tradotti al carcere della Castiglia, poi Le Nuove e Bolzano. Da qui partì la tradotta per Mauthausen, con a bordo Margherita (Mario Garzino 16 anni) e Cipolla, che non fecero più ritorno.

  • Qual era il nome di battaglia scelto da vostri parenti? Per quale motivo lo avevano scelto?

“Carletto” era il nome di battaglia di Carlo Razè, semplicemente un diminutivo del suo stesso nome. Credo lo avesse scelto da solo, era il nomignolo con cui lo chiamava sua madre in novarese (Carlèt).

  • Amavano raccontarsi o hanno faticato perché, come anche i deportati, non si sono sentiti compresi?

Il motivo per cui non amassero raccontarsi è descritto nelle seguenti parole, scritte da Carletto all’età di circa 70 anni: “Siamo sempre rimasti muti e un poco mortificati tutte le volte che personaggi a noi noti, oppure meno, scrivevano le loro impressioni, i loro ricordi e le cose che potevano interessare la costruzione della storia dei partigiani, vissuta da loro, mentre noi stessi la vivevamo, sofferta quando anche noi la soffrivamo.
Per tanti anni siamo rimasti in ombra come se tutto il passato incombesse. La diversa estrazione sociale ti rende diverso da chi ha avuto cultura e vita più facile: per alcuni di noi, vi sono concetti che non si è in grado di esprimere”.
Quindi le divergenze culturali ed in seguito i diversi orientamenti politici che videro la luce dopo la Liberazione, sono stati il motivo di un’astensione nel trasmettere la storia della propria esperienza resistenziale, quasi un oblio. E continuando “Questa è l’origine del nostro silenzio sulle cose che sono state fatte, con coloro che oggi ci rammentano dei tempi vissuti, il più delle volte, fianco a fianco”.

  • Rispetto all’idea di Resistenza che ci si può fare sui banchi di scuola, com’era quella vera, che coinvolse i vostri familiari?

La storia, come la presenta la scuola, fornisce i mezzi per la conoscenza della materia: a volte lo studio è astratto e lontano dalla realtà dei periodi bellici, di ogni epoca. Idem per la Resistenza: essa è rappresentata da date, fatti e testimonianze ma è difficile raggiungere la comprensione di situazioni che sono state vissute, comunque da giovani praticamente coetanei di chi studia la loro storia. Un’esperienza, i 20 mesi, che coinvolse i nostri familiari visceralmente, che scelsero la via della montagna per non sottostare allo stato neonazista, e di lassù coordinarsi per contrastarne l’avanzamento. Una Resistenza fatta di rinunce, vita alla macchia, lontananza dagli affetti, dagli studi magari lasciati a metà, dal lavoro perduto.

  • Raccontava spontaneamente o doveva essere sollecitato?

C’è sempre stato un alone di riservatezza, non amava il racconto di quel periodo.
Ma occasionalmente scriveva per un Giornale di Saluzzo, “La Pagina”, ed allora sviscerava il ricordo. Solo molto avanti con gli anni spontaneamente parlerà di alcuni momenti di grande importanza nella sua vita di partigiano.

  • C’è un episodio, tra quelli raccontati, che le rimase più impresso?

L’eccidio al Santuario di Valmala il 6 marzo 45 è descritto con le seguenti parole, da parte di chi non lo visse, ma ne rimase segnato per tutta la vita. Si era trattato della morte di nove dei suoi compagni di distaccamento (Il Bottazzi), lui si salvò dal momento che era ammalato e nascosto nei sotterranei della Wild di Piasco, curato dalla famiglia Reinaud. Attraverso le sue parole conosceremo quale era lo stato d’animo di un partigiano, di un comandante dopo tale evento.
“…obbligo di curare per i posteri le figure ed momenti storici passati. Ricordiamo quel marzo ’45, sgomenti e spauriti per la grande perdita subita, per la ventura di vederci colpiti per la seconda volta ed in pochi mesi, in ciò che era la nostra guida, il nostro coraggio la nostra profonda volontà di sconfiggere quel nemico…” Il Comando della 181^ Brigata Garibaldi “Morbiducci”, veniva decapitato, Ernesto Casavecchia e Giorgio Minerbi rimanevano con altri 7 partigiani lassù attorno a quel Santuario che li vide tenaci propulsori dei piani che nel futuro più prossimo avrebbero portato alla Liberazione… Non basta il tempo per capire, riordinare, ricominciare, ricucire tante pezze disperse e soprattutto il tempo per asciugare gli occhi, mentre già corri per gli stessi sentieri senza tregua, e con i compagni che ti guardano negli occhi per cercare ciò che trovavano prima della catastrofe: disciplina, volontà, sicurezza, appoggio esperienza. Ci siamo sempre ripresi, anche se con grandi sforzi…”.