Partigiano Mario Casavecchia

Testimonianza sul partigiano Mario Casavecchia nato a Torino il 14-05-1922 resa dal figlio all’A.N.P.I di Verzuolo per gli studenti delle terze scuola secondaria 1° grado.

  • Quando avete sentito raccontare per la prima volta dai vostri famigliari dell’esperienza partigiana?
Sono il figlio di Mario Casavecchia (nome di battaglia Marino) e nipote di Ernesto Casavecchia (Ernesto),  partigiani della 181^ Brigata Garibaldi che operava in Val Varaita. Ho iniziato a sentir parlare dell’esperienza partigiana quando avevo 13-14 anni. Questo avveniva nei periodi della commemorazione dei caduti di Valmala del 6 marzo '45, dove caddero 9 partigiani tra cui Ernesto, e della ricorrenza del 25 aprile a Verzuolo dove Marino, pur lavorando a Torino, tornava sempre per ritrovare i vecchi compagni partigiani con cui aveva instaurato dei solidi rapporti di amicizia.
  • Raccontava spontaneamente o doveva essere sollecitato ?
Marino non parlava volentieri di quel periodo, poiché era il ricordo doloroso di quando  aveva rischiato la pelle e  aveva visto morire suo fratello e tanti suoi compagni. Il mio primo sentimento sentendo parlare di morti, di esecuzioni, di impiccagioni fu di sgomento sentendo certe efferatezze.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre '43, Marino si trovava a Pragelato in Val Chisone, militare di leva negli alpini(leva che allora durava 4/5 anni), mentre suo fratello Ernesto si trovava a Centocelle vicino a Roma, dove frequentava l‘Accademia Militare per allievi ufficiali.
Con l’avvento della repubblica di Salò dopo il 23 settembre 1943 si trattava di fare una scelta: o andare in montagna o rispondere ai bandi di reclutamento. Marino con suo fratello Ernesto fece la scelta di salire in montagna e grazie ad amici del partito comunista Torinese, venne in contatto con il nascente movimento partigiano nella zona di Paesana/Barge. Venne mandato a radunare e organizzare i renitenti alla leva che nella zona del saluzzese si erano dati alla macchia per non aderire al bando di chiamata alle armi.
  • Secondo voi e in base a quello che vi è stato raccontato, che cosa ha spinto i giovani di allora a scegliere di diventare partigiani?
Mio padre  e mio zio  grazie alle loro letture clandestine avevano maturato una coscienza antifascista, anche perché le "leggi  fascistissime"  avevano abolito gran parte delle libertà : era  quasi impossibile trovare lavoro se non avevi la tessera del partito fascista  oppure se non avevi  fatto obbligatoriamente il balilla nel periodo scolastico per addestrarsi alla guerra. 
Erano stati messi al bando tutti i partiti politici e i sindacati , erano state istituite le leggi razziali nel 1938 che portarono alla deportazione e alla morte nei campi di concentramento milioni di Ebrei, non potevi muovere critiche al governo senza rischiare la galera o il pestaggio da parte degli squadristi fascisti (caso emblematico il delitto Matteotti che aveva denunciato le violenze squadriste durante le elezioni e per questo venne ucciso nel 1924); nel 1939 venne abolito il parlamento e ci fu la tragica decisione di entrare in guerra a fianco della Germania. Migliaia di giovani alpini vennero mandati a combattere in Russia dove trovarono la morte nel gelido inverno russo.
  • I  genitori approvavano la loro scelta ?   
I suoi genitori erano mancati nel 1940 quando Marino aveva 18 anni, ma quando erano in vita cercavano di frenare la tendenza ribelle dei loro figli per paura anche delle conseguenze.

Prima di partire per la montagna un episodio mi è rimasto impresso di Marino: quando, durante un bombardamento alleato su Torino, una bomba incendiaria (uno spezzone, cosi lo chiamava Marino) si conficcò nel tetto della casa dove abitavano senza esplodere. Uscito dal rifugio insieme al fratello Ernesto sono saliti sul tetto, hanno preso la bomba con la dovuta cautela e l’hanno portata in piazza Castello, poco distante, con una buona dose di incoscienza.
  • Che rapporto avevano i partigiani con le persone che vivevano nei paesi qui intorno? Ci sono degli aneddoti che potete raccontarci?
L’esperienza in montagna si è svolta in zona Venasca, Becetto di Sampeyre, Sampeyre, Casteldelfino, Brossasco, Melle, fino al confine con la Francia per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti della divisione Monterosa  e, se non fosse stato per la collaborazione dei valligiani, il movimento partigiano sarebbe stato sopraffatto in breve tempo. Infatti nel caso di  Marino, quella che sarebbe poi diventata sua moglie e mia madre, andava a portare le informazioni ai partigiani sui movimenti dei fascisti. Tant’è che quando Venasca fu incendiata per rappresaglia, appena i fascisti se ne andarono, essa andò subito a chiamare i partigiani i quali le diedero subito della matta e non le credettero, poiché non si erano accorti del loro passaggio, essa insistette finché li convinse a scendere in paese per aiutare a spegnere gli incendi salvando parecchie case dalla distruzione. 
  • C’è un episodio, tra quelli raccontati, che le rimase più impresso?
Ricordo  che  raccontava spesso dell’osteria della Posta a Lemma di Rossana dove spesso i partigiani trovavano riparo.
I 20 mesi di Resistenza furono un continuo susseguirsi di colpi di mano per rifornirsi di provviste presso i depositi dei fascisti, di battaglie come quella del ponte di Valcurta tra Brossasco e Melle, di marce anche nella neve alta trovando rifugio in qualche baita abbandonata o in qualche fienile di cascine abitate da contadini e, spesso, anche nelle canoniche di qualche chiesa di parroci compiacenti.
  • Qual era il nome di battaglia scelto dai vostri parenti? Per quale motivo lo avevano scelto?
Il nome di battaglia era un mezzo per non farsi riconoscere e tra i componenti dei distaccamenti si conoscevano e chiamavano con questo nome; anche perché in caso di cattura e sottoposti a tortura ognuno non potesse rivelare la vera identità degli altri componenti. In genere, ci si dava nomi di fantasia come Marino e non so come mai mio fratello Ernesto non abbia scelto un altro nome. Chiudo questa narrazione con questo episodio. Verso la fine della guerra, all’inizio del '45, un colonnello dell’esercito entrò in contatto con i partigiani per prendere il comando della brigata e alla richiesta di quanto sarebbe stata la paga, Marino gli fece vedere gli scarponi che avevano la tomaia legata col fil di ferro: da quel momento non si fece più vedere e i partigiani si gestirono fino alla fine delegando il comando a  chi veniva ritenuto più valido e affidabile.
  • Appena finita la guerra, che cosa desideravano fare?
Dopo il 25 aprile con la fine delle ostilità, deposte le armi, si cominciava a ritornare lentamente alla normalità in mezzo alle distruzioni e alla miseria provocate dalla guerra. I resistenti erano pieni di speranza per una società più giusta e libera dove la giustizia sociale e la libertà di espressione fossero i principi della nuova forma di governo che si sarebbe instaurata eliminando il ricorso alla guerra (stabilito dall’articolo 11 della Costituzione).
Purtroppo col passare degli anni la speranza di eliminare la guerra dal contenzioso tra le nazioni si è andata man mano affievolendo. La lezione della seconda guerra mondiale non è servita a niente.
  • L’importante però  è non  perdere la memoria di ciò che è stato.
Infatti, grazie alle attività dell’Anpi e dei suoi iscritti, sostenitori e collaboratori e di chi ha voluto i musei della Resistenza, come il Prof. Riccardo Assom, creatore dell’Ecomuseo della Resistenza di Rossana, si vuole preservare il ricordo di un periodo storico fondamentale per la nascita della nostra democrazia.
All’ecomuseo di Rossana ho donato tanti ricordi di Marino ed Ernesto: ci sono fotografie, documenti e reperti bellici che narrano l’epopea delle vicende dei 20 mesi della lotta partigiana in Val Varaita, un patrimonio da consegnare alle future generazioni che ne facciano tesoro.